di Pierluigi Consorti
Articolo tratto dal Scienza & Pace Magazine.
La decisione di ricorrere all’uso della forza armata per gestire un conflitto è sempre il frutto di pensieri violenti che si traducono in azioni violente. Quando anche una sola parte implicata in un conflitto decide di ricorrere alla forza armata, trascina le altre nella spirale della violenza armata coinvolgendo pure quelli che non sono direttamente interessati. La spirale dei pensieri violenti avvolge la scena e sembra che non si possa fare altro che usare la violenza, tanto per chi aggredisce quanto per chi si difende. Questo schema reattivo è perverso, irrazionale, e tuttavia appare ineluttabile, in quanto siamo abituati a considerare la violenza un elemento fisiologico della vita umana e sociale. L’idea di trasformare un conflitto in guerra fa parte della nostra storia; anche se sappiamo che nessuna guerra risolve davvero un conflitto. La guerra apparentemente genera vincitori e vinti, ma in realtà tutti perdono.
Ciononostante, la guerra fa parte della nostra mentalità: accettiamo con facilità di piegarci alle sue logiche e alle sue leggi. Combattere con le armi della distruzione appare un’opzione possibile. Per questo motivo i pacifisti che vogliono cancellare la guerra dalla storia sono considerati schiavi di un’utopia irrealistica: sappiamo tutti e tutte molto bene quanto sia difficile cancellare la violenza dalla mente degli uomini e delle donne.
Come pacifisti siamo anche accusati di mancare di coraggio, di non voler distinguere l’aggressore dall’aggredito e di restare in una comoda posizione neutrale, inefficace se non dannosa. A questo proposito non possiamo non ricordare che, in ogni conflitto, la ragione e il torto non dipendono da analisi esterne, fossero anche le più complete e sofisticate, ma dalla percezione della realtà che ciascuno vive in modo complesso e sempre dal proprio punto di vista. Ogni mediatore che entra in un conflitto altrui sa bene che tutte le parti del conflitto hanno le proprie ragioni. Pensare di gestire un conflitto distribuendo i torti e le ragioni non aiuta a gestirlo. Se si vuole impedire che il conflitto diventi una guerra e che questa distrugga tutto, bisogna impedire che i pensieri e le azioni violente prendano il sopravvento. Quando questo avviene e si comincia a usare la forza armata, il motivo del conflitto passa in secondo piano e l’attenzione si concentra sulle strategie, anche violente, che possono portare all’eliminazione dell’altro. Sia da parte di chi aggredisce che di chi si difende.
La violenza chiama violenza e crea inevitabilmente vittime innocenti. La responsabilità di ciascuna vittima si divide in parti uguali fra chi ha sparato l’ultimo colpo, quello fatale, e chi ha inviato quel soldato a sparare e chi ha costruito l’arma che ha sparato, chi l’ha venduta, progettata e chi non è stato capace di lavorare perché i pensieri violenti e le azioni violente non fossero considerati ineluttabili.
La guerra che si combatte in Ucraina sembra scoppiata tre giorni fa, quando le forze armate russe hanno cominciato l’invasione dell’intero territorio nemico. Un po’ tutti siamo impegnati a distribuire le responsabilità, a immaginare strategie di difesa, che mettono in conto la possibilità di uccidere, con le armi in senso stretto, o quelle dell’economia. Combattere armi in pugno sembra una scelta possibile, persino buona e magari la migliore.
Di fronte a questo scenario di violenza l’unica risposta realistica è quella di far tacere immediatamente le armi. Senza indugio e senza distinguo. Tanto gli aggressori quanto gli aggrediti possono decidere di gettare le armi. Questa scelta non è solo nelle mani dei capi delle Nazioni, ma anche in quelle di ciascuno e ciascuna delle persone armate. È venuto il momento di scegliere se essere colpevoli o innocenti.
I capi delle Nazioni hanno responsabilità maggiori, ma anche noi, gli ultimi, possiamo mostrare di avere un potere. L’India si è liberata del dominio coloniale senza uccidere neanche un colonizzatore. Il muro di Berlino è stato abbattuto senza uccidere nessuno. I pensieri e le azioni nonviolente hanno dimostrato di essere efficaci, anche se sono stati offuscati dalla storia successiva. Possiamo tornare sui nostri passi.
L’Europa avverte di essere in guerra perché la Russia ha invaso l’Ucraina, ma eravamo già in guerra: in Libia, in Siria, in Africa, in America del Sud, e in molti altri luoghi in cui la violenza detta le condizioni di vita. Abbiamo ignorato le guerre, e i violenti ne hanno approfittato per armarsi e alzare il prezzo della pace possibile.
Se le guerre non scoppiano da sole, nemmeno la pace scoppia da sola. Se la guerra è l’esito di un’escalazione violenta, la pace di una lenta costruzione pacifica. Quando un conflitto si è già trasformato in guerra, le azioni di pace sono certamente più difficili; ma questo è pure il momento in cui c’è più bisogno di pace. Ci siamo tanto esercitati a combattere, che facciamo fatica a ricordare che fare la pace dipende da ciascuno di noi. Il disarmo comincia dal basso. Diamo un’opportunità alla pace cominciando da noi. Facciamo in modo che pensieri e gesti di pace condizionino le scelte dei potenti. Costringiamo i capi delle Nazioni a scegliere la pace. Disarmiamoci, non aggrediamo e non difendiamoci aggredendo.
Non è una cosa facile, né immediata. Siamo realisti e sappiamo di non essere attrezzati per fare la pace. Ma sappiamo anche che se c’è qualcosa per cui vale la pena vivere, e morire, quella è la pace. Se disarmiamo i conflitti, possiamo far scoppiare la pace.
Pierluigi Consorti è Professore ordinario presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Ha diretto il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace. Nel Corso di laurea in Scienze per la pace insegna “Approccio interculturale alla trasformazione dei conflitti”, nei Corsi di giurisprudenza “Diritto e religione” e “Diritto interculturale”. E-mail: pierluigi.consorti@unipi.it